Alice Martini Psicologa
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ETICHETTAMENTO E DIAGNOSI

2/16/2023

 
Essere attenti all’ordine non vuole dire soffrire di un disturbo ossessivo-compulsivo. 
Avere qualche sbalzo d’umore non significa essere bipolari.
Avere paura di essere abbandonati non vuol dire essere borderline.
Voler passare più tempo con il partner non significa soffrire di dipendenza affettiva.
Sentirsi tristi non vuol dire essere depressi.
 
Al giorno d’oggi, complice il “dottor google”, sempre più spesso vengono utilizzati termini clinici per descrivere pensieri, emozioni e comportamenti delle persone e, spesso, siamo noi stessi ad affibbiarci etichette diagnostiche dopo qualche ricerca in rete.
Questo comporta tre conseguenze importanti: la prima è che, naturalmente, rispecchiarsi in alcuni criteri diagnostici di un determinato disturbo psicopatologico non ha niente a che vedere con una diagnosi. La seconda, è che in questo modo si finisce per sminuire e banalizzare coloro che, effettivamente, di quel particolare disturbo hanno ricevuto diagnosi, finendo così nella stigmatizzazione. Infine, la terza è che etichettare noi stessi o gli altri finisce per farci identificare con quella determinata emozione, con quel determinato comportamento o patologia.

Il processo diagnostico prevede un iter complesso di valutazione della persona a 360 gradi e non un semplice incasellamento di questa all’interno di una determinata categoria. Questo significa che per ottenere una diagnosi non basterà riconoscersi in qualche criterio diagnostico letto su internet ma andranno presi in considerazione molti fattori tra cui i vissuti, i comportamenti, le relazioni, l’aspetto comportamentale e cognitivo, il contesto di vita della persona, etc.
Occorre ricordare, inoltre, che ogni individuo è unico e la diagnosi psicologica descrive proprio la sua unicità e che il compito dello psicologo che è chiamato ad effettuarla è quello non di etichettare la persona che la riceve quanto di descriverne il suo funzionamento in modo che questo possa orientarlo nella scelta degli obiettivi e delle strategie di intervento più adatte.

Internet e il mondo dei social hanno, come tutto, lati positivi e negativi, infatti, se da una parte tutto e tutti sono raggiungibili con un semplice “click” dall’altra siamo esposti ad una considerevole mole di informazioni, spesso contradditorie tra loro, che non sempre sono facili da gestire e da contestualizzare. Non siamo qui a demonizzare proprio tutto però, infatti, alcuni contenuti potrebbero essere di aiuto nel trovare familiari alcuni racconti o vissuti di altre persone e quindi spingere alcune di esse a richiedere una consulenza psicologica nel caso vi sia sofferenza.
Un’altra conseguenza importante è quella dell’etichettamento.

È sempre necessario informare il paziente rispetto alla diagnosi? La risposta è “NI”. La cosiddetta etichetta diagnostica rappresenta un’arma a doppio taglio. Sicuramente è utile al professionista, come visto in precedenza, per orientare gli obiettivi e gli interventi in modo più adeguato. Per quanto riguarda il paziente, è indubbio che, specialmente in seguito a lunghi periodi di sofferenza, il solo poter dare un nome alle proprie difficoltà, possa conferire un po’ di sollievo. L’etichetta diagnostica però, lasciata così fine a se stessa, in realtà potrebbe essere più dannosa che utile.
Innanzitutto, esiste un “tempo”, infatti andrebbe comunicata al momento opportuno, ovvero quando il paziente è pronto ad accoglierla. 
Inoltre, dare un nome al nostro “nemico” non ne fa conoscere le sue caratteristiche, ad esempio i punti di forza e quelli di debolezza.
È necessario quindi fornire al paziente una spiegazione esaustiva di cosa quel determinato nome comporti. 
Molto spesso capita che l’etichetta diagnostica venga vissuta come una valutazione globale, quindi, finisca per essere un giudizio globale sulla persona. In questo senso “Avere un disturbo d’ansia” diventa “sono una persona ansiosa” non facendo attenzione a tutte quelle volte in cui quella persona si è sentita propositiva e rilassata, ad esempio. L’etichettamento, pertanto, rischia di far perdere di vista tutte quelle sfumature che rendono la persona quella che è, indipendentemente dalla propria sofferenza o dal proprio disturbo. 

Un altro pericolo dell’etichettamento diagnostico deriva dal fenomeno del “far tornare i conti”. In cosa consiste? Si riferisce ad una continua ricerca di elementi che vadano a confermare l’ipotesi (in questo caso la diagnosi) sempre a discapito di tutte quelle caratteristiche positive che, seppur presenti, non rientrano in quella categoria. Questo è intimamente collegato alla “profezia che si autoavvera”, pertanto, definire la propria persona sulla base di un’etichetta diagnostica porta al mantenimento di pensieri ed atteggiamenti in linea con quella diagnosi, non solo da parte della persona in questione ma anche dalla realtà che la circonda che comincerà ad interpretare e attribuire ogni comportamento o atteggiamento a quella determinata categoria diagnostica.
Cosa fare quindi?
 
  • Impara a riconoscere e dare un nome alle emozioni: non sapere cosa si prova può disorientare e confondere. Le emozioni fungono da messaggere, quindi ascolta quali informazioni ti stanno dando. 
 
  • Non etichettare/etichettarti: tu sei molto di più di quell’emozione, di quel pensiero o comportamento, di quella diagnosi, etc. Prova a fare questo esercizio: al posto di dire “sono depresso” puoi dire “mi sento triste”, invece di “sono una persona ansiosa” prova a dire “in questo momento provo ansia”.
 
  • Rivolgiti ad un professionista: come abbiamo visto, la diagnosi non è un mero incasellamento di elementi in una categoria ma è un processo di co-costruzione del suo significato insieme al paziente e, pertanto, non è possibile effettuare un’autodiagnosi men che meno gli altri. Quello che puoi fare però, è rivolgerti ad un professionista della salute mentale e condividere con lui dubbi e perplessità riguardo il vissuto che stai sperimentando.

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