Essere attenti all’ordine non vuole dire soffrire di un disturbo ossessivo-compulsivo.
Avere qualche sbalzo d’umore non significa essere bipolari. Avere paura di essere abbandonati non vuol dire essere borderline. Voler passare più tempo con il partner non significa soffrire di dipendenza affettiva. Sentirsi tristi non vuol dire essere depressi. Al giorno d’oggi, complice il “dottor google”, sempre più spesso vengono utilizzati termini clinici per descrivere pensieri, emozioni e comportamenti delle persone e, spesso, siamo noi stessi ad affibbiarci etichette diagnostiche dopo qualche ricerca in rete. Questo comporta tre conseguenze importanti: la prima è che, naturalmente, rispecchiarsi in alcuni criteri diagnostici di un determinato disturbo psicopatologico non ha niente a che vedere con una diagnosi. La seconda, è che in questo modo si finisce per sminuire e banalizzare coloro che, effettivamente, di quel particolare disturbo hanno ricevuto diagnosi, finendo così nella stigmatizzazione. Infine, la terza è che etichettare noi stessi o gli altri finisce per farci identificare con quella determinata emozione, con quel determinato comportamento o patologia. Il processo diagnostico prevede un iter complesso di valutazione della persona a 360 gradi e non un semplice incasellamento di questa all’interno di una determinata categoria. Questo significa che per ottenere una diagnosi non basterà riconoscersi in qualche criterio diagnostico letto su internet ma andranno presi in considerazione molti fattori tra cui i vissuti, i comportamenti, le relazioni, l’aspetto comportamentale e cognitivo, il contesto di vita della persona, etc. Occorre ricordare, inoltre, che ogni individuo è unico e la diagnosi psicologica descrive proprio la sua unicità e che il compito dello psicologo che è chiamato ad effettuarla è quello non di etichettare la persona che la riceve quanto di descriverne il suo funzionamento in modo che questo possa orientarlo nella scelta degli obiettivi e delle strategie di intervento più adatte. Internet e il mondo dei social hanno, come tutto, lati positivi e negativi, infatti, se da una parte tutto e tutti sono raggiungibili con un semplice “click” dall’altra siamo esposti ad una considerevole mole di informazioni, spesso contradditorie tra loro, che non sempre sono facili da gestire e da contestualizzare. Non siamo qui a demonizzare proprio tutto però, infatti, alcuni contenuti potrebbero essere di aiuto nel trovare familiari alcuni racconti o vissuti di altre persone e quindi spingere alcune di esse a richiedere una consulenza psicologica nel caso vi sia sofferenza. Un’altra conseguenza importante è quella dell’etichettamento. È sempre necessario informare il paziente rispetto alla diagnosi? La risposta è “NI”. La cosiddetta etichetta diagnostica rappresenta un’arma a doppio taglio. Sicuramente è utile al professionista, come visto in precedenza, per orientare gli obiettivi e gli interventi in modo più adeguato. Per quanto riguarda il paziente, è indubbio che, specialmente in seguito a lunghi periodi di sofferenza, il solo poter dare un nome alle proprie difficoltà, possa conferire un po’ di sollievo. L’etichetta diagnostica però, lasciata così fine a se stessa, in realtà potrebbe essere più dannosa che utile. Innanzitutto, esiste un “tempo”, infatti andrebbe comunicata al momento opportuno, ovvero quando il paziente è pronto ad accoglierla. Inoltre, dare un nome al nostro “nemico” non ne fa conoscere le sue caratteristiche, ad esempio i punti di forza e quelli di debolezza. È necessario quindi fornire al paziente una spiegazione esaustiva di cosa quel determinato nome comporti. Molto spesso capita che l’etichetta diagnostica venga vissuta come una valutazione globale, quindi, finisca per essere un giudizio globale sulla persona. In questo senso “Avere un disturbo d’ansia” diventa “sono una persona ansiosa” non facendo attenzione a tutte quelle volte in cui quella persona si è sentita propositiva e rilassata, ad esempio. L’etichettamento, pertanto, rischia di far perdere di vista tutte quelle sfumature che rendono la persona quella che è, indipendentemente dalla propria sofferenza o dal proprio disturbo. Un altro pericolo dell’etichettamento diagnostico deriva dal fenomeno del “far tornare i conti”. In cosa consiste? Si riferisce ad una continua ricerca di elementi che vadano a confermare l’ipotesi (in questo caso la diagnosi) sempre a discapito di tutte quelle caratteristiche positive che, seppur presenti, non rientrano in quella categoria. Questo è intimamente collegato alla “profezia che si autoavvera”, pertanto, definire la propria persona sulla base di un’etichetta diagnostica porta al mantenimento di pensieri ed atteggiamenti in linea con quella diagnosi, non solo da parte della persona in questione ma anche dalla realtà che la circonda che comincerà ad interpretare e attribuire ogni comportamento o atteggiamento a quella determinata categoria diagnostica. Cosa fare quindi?
Tutti noi sbagliamo, che sia un compito in classe, un esame, una performance lavorativa, una relazione e, allo stesso modo, tutti noi fatichiamo ad accettarlo quel fallimento.
Possiamo definire la paura del fallimento come una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale che si attiva al solo pensiero che un certo obiettivo possa non essere raggiunto. Come per l’ansia, anche la paura rappresenta un’emozione di base e, entro una certa soglia, può essere funzionale. In che modo? La paura ci protegge, ci tutela, ci impedisce, ad esempio, di esporci in situazioni di pericolo: è funzionale alla sopravvivenza. Vi sono alcune circostanze, però, quando questa emozione supera una certa soglia, in cui non la è più: livelli molto elevati di paura possono, ad esempio, “bloccarci”, portarci ad evitare di esporci a quello stimolo che per noi è particolarmente stressante. Questo è sicuramente funzionale di fronte ad un pericolo concreto, ma cosa succede se ciò che mi minaccia è un pericolo percepito? Facciamo un esempio: se mentre cammino per strada vedessi un leone corrermi incontro subentrerebbero tutta una serie di reazioni emotive, cognitive e fisiologiche, evoluzionisticamente parlando, finalizzate alla mia sopravvivenza. Ma cosa succede se tutto questo accade di fronte ad una verifica o a una presentazione a lavoro? La paura di non raggiungere i propri obiettivi può “immobilizzare”, può portarci ad evitare i rischi e a mantenerci nella nostra “comfort zone” che sì, è sicuramente rassicurante, ma, d’altra parte, può farci perdere numerose opportunità. Inoltre, non può esistere un’idea condivisa di fallimento: ciò che costituisce un fallimento per me non significa che significhi altrettanto per un’altra persona, anzi potrebbe rappresentare addirittura un’occasione di crescita. In quale modo si potrebbe manifestare? Vediamone alcuni:
La paura del fallimento è molto frequente e riguarda tutti gli ambiti della vita. Prima di procedere però è opportuno fare due precisazioni:
Come superare quindi la paura del fallimento? Innanzitutto, prendendo consapevolezza che nella vita la sconfitta e il fallimento arrivano per tutti. Ecco alcuni semplici consigli:
Nello scorso articolo abbiamo visto come l’ansia, superata una certa soglia, possa, con la sua sintomatologia, compromettere le nostre performance a scuola, all’università, a lavoro e, più in generale, nella nostra quotidianità.
Vi sono, però, altri due fattori a cui dobbiamo prestare attenzione: l’autostima e l’autoefficacia. Prima di iniziare è doveroso introdurre un concetto intimamente connesso a questi fattori: il sé. Non è facile trovare una definizione condivisa da tutti gli autori, spesso lo associamo all’identità creando però confusione. Possiamo pensare al sé come al nucleo della nostra personalità, una struttura centrale che contiene una serie di componenti personali, consentendoci di autodefinirci. Esistono numerose teorie al riguardo ma non starò qui ad annoiarvi con discorsi troppo accademici, non è questo il luogo né lo scopo di questo articolo. Ce n’è però una in particolare, importante ai fini del nostro discorso, che riguarda il sé reale e il sé ideale. Sicuramente ricorderete che, da piccoli, spesso ci veniva fatta questa domanda: “cosa vorresti fare da grande?” e noi rispondevamo cose come: l’astronauta, la ballerina, il calciatore, l’attrice e così via. Io personalmente rispondevo “la cantante”. Avete mai sentito qualcuno rispondere con mestieri più vicini alla nostra vita di tutti i giorni? Che cosa significa questo? Quando siamo piccoli la nostra capacità immaginativa è potentissima ma, allo stesso tempo, abbiamo una scarsa consapevolezza di quelli che sono i nostri punti di forza e i nostri limiti, del contesto di vita, degli ostacoli che possiamo trovarci di fronte, etc. Questa immaginazione però, ci permette di “andare oltre” e di sperimentarci in qualcosa che non siamo e che mai nessuno ci ha detto che potremmo essere. Crescendo, man mano che ci avviciniamo all’età adulta, questa capacità diminuisce lasciando sempre più spazio alla consapevolezza: aspettativa e realtà cominciano a combaciare. E poi cosa accade? Accade che dobbiamo fare i conti con le difficoltà economiche, con un contesto lavorativo instabile, dobbiamo portare lo stipendio a casa perché l’affitto e le bollette non si pagano con i sogni, e spesso, quindi, finiamo per accettare un lavoro che non ci appaga, ad esempio. Il “sé reale” (o percepito) riguarda il “come pensiamo di essere”, tutto ciò che sentiamo di rappresentare, di aver raggiunto e di poter raggiungere nel concreto. Il “sé ideale”, invece, rappresenta il “come vorremmo essere”, tutto ciò a cui tendiamo, è la nostra guida, ciò che ci spinge a fare sempre di più. In questo senso, potremmo definire l’autostima come la risultante tra il sé reale e il sé ideale. In che modo? Se esiste congruenza tra sé reale e sé ideale avremo, verisimilmente, una buona autostima, e ciò porta ad una sensazione di autorealizzazione, ovvero, appagamento per ciò che si è e si fa. Se, viceversa, vi è incongruenza tra sé reale e sé ideale, avremo, verisimilmente, un basso livello di autostima. L’incongruenza può essere sia in positivo che in negativo: alcune persone potranno avere un sé ideale “gonfiato”, altri un’immagine di sé “scarsa” che li porta ad essere poco ambizioni. Quando la persona non riesce ad essere o a fare ciò che desidera può sperimentare vissuti di tristezza, inadeguatezza, sensi di colpa, ad esempio, portandola ad abbandonare progetti e rimanere in una situazione di “stallo” dal quale, giorno dopo giorno, diventa sempre più difficile uscire. Possiamo definire, invece, l’autoefficacia come la consapevolezza delle proprie capacità e abilità; il sentirsi o meno capaci di poter fare qualcosa. L’autostima riguarda più una valutazione di se stessi come persone, l’autoefficacia, invece, riguarda maggiormente una valutazione in base al saper fare. In conclusione, l’immagine, la considerazione che abbiamo di noi stessi condizionano in modo decisivo la nostra autostima e anche il nostro senso di autoefficacia nel far fronte alle diverse situazioni che la vita ci pone davanti. Sappiamo come autostima e autoefficacia influiscano in modo considerevole non solo nelle nostre scelte di vita e nella nostra quotidianità ma anche nello studio e nella riuscita scolastica. Infatti, bassi livelli di autostima e di autoefficacia, possono portare a crearsi pensieri negativi circa la propria persona e le proprie abilità e capacità. Occorre pertanto cercare di mettere in discussione questi pensieri privilegiando il cosiddetto “self talk positivo” ovvero parlare con se stessi riservandosi un linguaggio positivo. Come? Prova a trasformare frasi come “non ho studiato abbastanza”, “non so le cose”, “andrà sicuramente male” in frasi come “sono sicuro che andrà bene”, “so le cose”, “posso farlo”, “posso ottenere dei risultati positivi”. Può essere utile anche scrivere nero su bianco i pensieri positivi che rivolgiamo a noi stessi. Anche in questo caso è valida la profezia che si autoavvera: se ci approcciamo a qualcosa con l’idea che non andrà bene, che non si è studiato abbastanza, che tanto non si sa rispondere allora è probabile che quello che si otterrà è proprio quello in linea con i nostri pensieri in quanto il comportamento e l’approccio saranno negativi. Se è vero che vale per i pensieri negativi vale anche per quelli positivi, quindi, riformula le aspettative e le credenze. |
Dott.ssa Alice Martini
|